Usa/Palestina. Il presidente palestinese ha aperto, come voleva, un canale di comunicazione con la nuova Amministrazione Usa ma l'invito a Washington non rafforza la sua posizione
Donald Trump ha invitato Abu Mazen alla Casa Bianca. Il leader palestinese ha ribadito la volontà di arrivare a un accordo con Israele e ha ricordato al presidente americano gli impegni presi dagli Usa in passato. Sono questi i punti principali della conversazione telefonica avvenuta ieri sera tra il presidente americano e quello palestinese. E’ il primo contatto tra la nuova Amministrazione e Abu Mazen che può dire di aver segnato un punto a suo favore. Per settimane ha tenuto a freno le frange più dure del suo partito, Fatah, che premevano per lo scontro con un Trump che si proclama alleato di ferro di Israele. Ha scelto la cautela, convinto che il presidente americano presto o tardi avrebbe avviato i contatti con i palestinesi visto che proclama di poter arrivare all’accordo di pace fallito dai suoi predecessori. Tuttavia il colloquio con Trump non porta un gran beneficio al presidente palestinese.
La posizione di Abu Mazen resta precaria all’interno e all’esterno. In Cisgiordania, così come a Gaza, la popolazione è indifferente agli sviluppi “diplomatici”. Pochi palestinesi credono, anche nell’entourage del presidente, che Trump possa persuadere il premier israeliano Netanyahu ad accettare la condizione, il blocco delle attività di insediamento, posta da Abu Mazen per tornare al tavolo delle trattative. Certo l’Amministrazione ha ammonito Israele dall’annettersi la Cisgiordania ma allo stesso tempo lavora con il governo Netanyahu intorno a un’intesa che, quasi certamente, vedrà gli Usa accettare la crescita dei principali blocchi di insediamenti ebraici in cambio di un congelamento non dichiarato delle costruzioni nelle colonie più isolate. Netanyahu, peraltro, non può accettare freni alla colonizzazione, per motivi ideologici e politici. “Casa ebraica”, il partito dei coloni, è in crescita costante nei sondaggi e il suo leader, Naftali Bennett, sibillinamente si dice pronto ad occupare la poltrona di primo ministro quando «sarà tramontata l’era Netanyahu».
Per Abu Mazen non è migliore il quadro della situazione all’esterno. Girano ancora voci di un’alleanza più solida tra i quattro paesi del “Quartetto Arabo” o la “Nato araba – Arabia saudita, Emirati, Egitto e Giordania –, più aperti nei confronti di Israele e che certe condizioni potrebbero rilanciare la vecchia idea di una confederazione giordano-palestinese per la Cisgiordania. Inoltre il presidente dell’Anp deve fare i conti con l’ostilità del Cairo. L’Egitto vuole che il leader palestinese «perdoni» il suo rivale Mohammed Dahlan – un ex capo dei servizi di sicurezza a Gaza che vanta buoni rapporti con Israele, Usa e diversi leader arabi – per offrigli la possibilità di candidarsi alla sua successione. Abu Mazen rifiuta e, per ritorsione, il Cairo ha impedito l’ingresso nel Paese a Jibril Rajoub, tra i leader di Fatah e nemico giurato di Dahlan. Ieri sera fonti di Fatah spiegavano al manifesto che a due settimane dall’inizio del vertice arabo ad Amman, Abu Mazen non sa ancora se la questione palestinese sarà in testa all’agenda del summit o se i “fratelli arabi” si limiteranno agli abituali proclami di appoggio destinati all’oblio.
La posizione di Abu Mazen resta precaria all’interno e all’esterno. In Cisgiordania, così come a Gaza, la popolazione è indifferente agli sviluppi “diplomatici”. Pochi palestinesi credono, anche nell’entourage del presidente, che Trump possa persuadere il premier israeliano Netanyahu ad accettare la condizione, il blocco delle attività di insediamento, posta da Abu Mazen per tornare al tavolo delle trattative. Certo l’Amministrazione ha ammonito Israele dall’annettersi la Cisgiordania ma allo stesso tempo lavora con il governo Netanyahu intorno a un’intesa che, quasi certamente, vedrà gli Usa accettare la crescita dei principali blocchi di insediamenti ebraici in cambio di un congelamento non dichiarato delle costruzioni nelle colonie più isolate. Netanyahu, peraltro, non può accettare freni alla colonizzazione, per motivi ideologici e politici. “Casa ebraica”, il partito dei coloni, è in crescita costante nei sondaggi e il suo leader, Naftali Bennett, sibillinamente si dice pronto ad occupare la poltrona di primo ministro quando «sarà tramontata l’era Netanyahu».
Per Abu Mazen non è migliore il quadro della situazione all’esterno. Girano ancora voci di un’alleanza più solida tra i quattro paesi del “Quartetto Arabo” o la “Nato araba – Arabia saudita, Emirati, Egitto e Giordania –, più aperti nei confronti di Israele e che certe condizioni potrebbero rilanciare la vecchia idea di una confederazione giordano-palestinese per la Cisgiordania. Inoltre il presidente dell’Anp deve fare i conti con l’ostilità del Cairo. L’Egitto vuole che il leader palestinese «perdoni» il suo rivale Mohammed Dahlan – un ex capo dei servizi di sicurezza a Gaza che vanta buoni rapporti con Israele, Usa e diversi leader arabi – per offrigli la possibilità di candidarsi alla sua successione. Abu Mazen rifiuta e, per ritorsione, il Cairo ha impedito l’ingresso nel Paese a Jibril Rajoub, tra i leader di Fatah e nemico giurato di Dahlan. Ieri sera fonti di Fatah spiegavano al manifesto che a due settimane dall’inizio del vertice arabo ad Amman, Abu Mazen non sa ancora se la questione palestinese sarà in testa all’agenda del summit o se i “fratelli arabi” si limiteranno agli abituali proclami di appoggio destinati all’oblio.
Aucun commentaire:
Enregistrer un commentaire